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Borgata Valliera

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Castelmagno
Valle Grana

La Borgata Valliera e Campofei da Il Colletto -Castelmagno- Isabella Sassi Farìas

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I processi di ritorno alla montagna che abbiamo esplorato in questi territori richiedono un accompagnamento e una nuova sinergia tra attori privati e pubblici volta a garantire uno sviluppo sistemico e integrato.

Castelmagno

Italia

Vista su Borgata Valliera- Castelmagno- Isabella Sassi Farìas
Borgata Valliera -Castelmagno-Isabella Sassi Farìas
Borgata Valliera- Castelmagno- Isabella Sassi Farìas
Chiesetta Borgata Campofei -Castelmagno- Isabella Sassi Farìas
Borgata Valliera -Castelmagno- Isabella Sassi Farìas

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Nuove alleanze pubblico / privato

La produzione di Castelmagno d'alpeggio -Castelmagno- Borgata Valliera- Isabella Sassi Farìas
La produzione di Castelmagno d'alpeggio -Castelmagno- Borgata Valliera- Isabella Sassi Farìas
Area di lavorazione del Castelmagno d'alpeggio-Castelmagno- Borgata Valliera- Davide Curatola Soprana
Area di lavorazione del Castelmagno d'alpeggio-Castelmagno- Borgata Valliera- Davide Curatola Soprana
Attrezzatura per la mungitura all'aperto- Castelmagno- Borgata Valliera- Davide Curatola Soprana
La nuova strada per il pascolo verso le alte quote- Castelmagno- Borgata Valliera- Davide Curatola Soprana
La nuova strada per il pascolo verso le alte quote- Castelmagno- Borgata Valliera- Davide Curatola Soprana
“Si rigenera una borgata, un luogo di produzione, di accoglienza e di vita alpina. Rinasce un pezzo di territorio che dimostra che si può ripensare la politica economica e territoriale alpina al di fuori dell’assistenzialismo che ha caratterizzato in molte valli l’unica via per mantenere le produzioni”.

Claudio Conterno

Socio fondatore del progetto di recupero
Materiale da costruzione- Castelmagno- Borgata Valliera- Isabella Sassi Farìas
Vista del borgo -Castelmagno- Borgata Campofei- Alessandro Guida

Il racconto

Il recupero della Borgata Valliera nasce grazie all'iniziativa di un gruppo di privati che decidono di investire sulla rinascita di questo luogo partendo dalla valorizzazione di un’economia locale: la produzione di Castelmagno d'alpeggio. La filosofia del progetto: portare nuova vita economica sul territorio.
Un lungo percorso di ricomposizione delle proprietà fondiarie e di costruzione di un modello di governance che porta al recupero dell’intero nucleo: dalle cantine scavate nella pietra per la stagionatura del formaggio, agli edifici per la lavorazione casearia, poi le case e gli spazi per l’accoglienza, non ultimo un sistema di percorsi carrabili, che ricalca le orme degli antichi sentieri, per raggiungere i pascoli prevedendo delle pause in piano per la sosta degli animali e per il posizionamento delle macchine per la mungitura.

La montagna produttiva

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I processi di ritorno alla montagna che abbiamo esplorato in questi territori richiedono un accompagnamento e una nuova sinergia tra attori privati e pubblici volta a garantire uno sviluppo sistemico e integrato.
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Attrezzatura per la mungitura all'aperto- Castelmagno- Borgata Valliera- Davide Curatola Soprana
La nuova strada per il pascolo verso le alte quote- Castelmagno- Borgata Valliera- Davide Curatola Soprana
“Si rigenera una borgata, un luogo di produzione, di accoglienza e di vita alpina. Rinasce un pezzo di territorio che dimostra che si può ripensare la politica economica e territoriale alpina al di fuori dell’assistenzialismo che ha caratterizzato in molte valli l’unica via per mantenere le produzioni”.

Claudio Conterno

Socio fondatore del progetto di recupero
Materiale da costruzione- Castelmagno- Borgata Valliera- Isabella Sassi Farìas
Vista del borgo -Castelmagno- Borgata Campofei- Alessandro Guida

Il racconto

Il recupero della Borgata Valliera nasce grazie all'iniziativa di un gruppo di privati che decidono di investire sulla rinascita di questo luogo partendo dalla valorizzazione di un’economia locale: la produzione di Castelmagno d'alpeggio. La filosofia del progetto: portare nuova vita economica sul territorio.
Un lungo percorso di ricomposizione delle proprietà fondiarie e di costruzione di un modello di governance che porta al recupero dell’intero nucleo: dalle cantine scavate nella pietra per la stagionatura del formaggio, agli edifici per la lavorazione casearia, poi le case e gli spazi per l’accoglienza, non ultimo un sistema di percorsi carrabili, che ricalca le orme degli antichi sentieri, per raggiungere i pascoli prevedendo delle pause in piano per la sosta degli animali e per il posizionamento delle macchine per la mungitura.

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Borgata Valliera

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Siamo in Valle Grana, nelle Alpi Cozie meridionali. Valliera è una delle numerose borgate che fanno parte del comune di Castelmagno. Non esiste un centro abitato con questo nome: la valle è costellata di piccoli villaggi abbarbicati sulla roccia che, visti dall’alto, sembrano tanti mucchietti di pietre persi nella boscaglia. Una valle chiusa, dall’atmosfera surreale e magica, pareti ripide e scoscese, boschi densi e strade ardite. 

Come ci ricorda il sindaco Alberto Bianco, castelmagnese di acquisizione, sull’intero territorio abitano solo più 54 persone. Nel 1958 il comune contava 2400 abitanti.

La vista zenitale ci permette di ritrovare i segni delle originarie 14 frazioni, di cui oggi quasi la metà completamente abbandonata. Ma è solo l’esplorazione sul terreno, la salita lenta sulla via stretta scavata lungo il costone verso la Valliera, che ci permette di comprendere la sintesi tra la difficoltà oggettiva di abitare questi luoghi e l’atmosfera surreale di questi pendii. Appena prima di raggiungere Campomolino la strada devia sulla destra e comincia ad arrampicare per raggiungere il Colletto (1272m), 25 case e una chiesa, l’ultima frazione in cui si arriva a togliere la neve. Qui abitano Dino (classe 1940) e Irma che si è trasferita qui per scelta sei anni fa. Si aiutano a vicenda. Silvio Berardino, detto Dino, è la memoria storica di questo luogo. Nato in Frazione Chiappi, nei pressi del Santuario di Castelmagno, resta in valle fino a 18 anni. 

I suoi genitori erano pastori di pecore ‘eravamo peggio degli zingari’ ci racconta. Durante la transumanza partivano dalla provincia di Vercelli per arrivare a Caraglio. Ci mettevano 7 giorni. E poi ancora su fino al Santuario. Le pecore avevano gli zoccoli sanguinanti per aver camminato sull’asfalto. In bassa valle i contadini erano felici del loro passaggio, perché erano loro che si prendevano cura del paesaggio agricolo. Ma in Alta Valle erano mal visti. Ci chiamavano ‘i gratta’, racconta. Avevano 150 pecore, facevano la ricotta e a fine febbraio tosavano gli animali per venderne la lana per imbottire I materassi.  Allora si pulivano i sentieri e si mantenevano le strade: arrivava il messo comunale a chiamare la gente per fare i lavori. Le pietre si raccoglievano dai campi e si ammucchiavano sui bordi a farne dei muretti (ne abbiamo viste le tracce anche ad Argentera, in Alta Valle Stura, e nei pascoli sopra la borgata Roccia in Val Varaita), e si raccoglievano le viole per farne profumi. D’inverno il mondo si fermava. Lungo le mulattiere delle borgate più alte, c’erano ‘le pause dei morti’, i luoghi dell’attesa prima della sepoltura che sarebbe avvenuta solo con il disgelo. Nel ‘59 Dino, e molti come lui, è emigrato a Torino. Torna in valle quasi quarant’anni dopo: ha un piccolo orto e la vita anarchica e libera che solo quel microcosmo della borgata del Colletto può offrire.

Il Colletto è un ottimo punto di osservazione: domina il fondo valle, e permette allo sguardo di aprirsi a 360 gradi sulla corona di montagne attorno. Sul fronte esposto a meridione, lontane, oltre i 1500m di altitudine, quasi un miraggio, si scorgono altri gruppi di case in bilico sui pendii o protetti da imponenti speroni di roccia. Sono Batoira, riscoperta da un gruppo di monaci tibetani tra gli anni ‘70-‘80, in parte recuperata e poi di nuovo lasciata al suo destino; Narbona che soccombe all’abbandono e all’isolamento, costruita su uno sperone roccioso: mai raggiunta dalla strada carrabile, aveva 110 abitanti e una scuola. Era il cuore della produzione del Castelmagno. Campofei, una strada sterrata, muri di contenimento, un agriturismo e alcuni interventi di recupero; e in ultimo, La Valliera, una realtà complessa: 80 abitanti all’inizio del 900, poi la fuga repentina verso valle. “La prima volta che siamo venuti su per una camminata era il 2006. Siamo rimasti impressionati: le case erano abbandonate da decenni, ma si percepiva il vissuto di chi le aveva abitate. Tavole apparecchiate, bottiglie di vino, vestiti negli armadi. Tutto era come il giorno in cui la popolazione era partita. Come se l’andare via fosse per un solo momento. Ma lassù non è più tornato nessuno”. Elisa Fantino, che gestisce il rifugio ed è una dei soci fondatori dell’azienda, ci dice che ci è voluto un anno per ritrovare i proprietari degli immobili e dei pascoli attorno alla borgata. In alcuni casi fino a 44 persone per ricomporre un solo edificio. 

Si tratta di borgate abbandonate dal secondo dopoguerra, tant’è che si narra di un parroco che nel ‘59 si è tolto la vita per la disperazione di dover assistere a quell’esodo di massa: col passare degli anni sono venute a mancare le ragioni economico produttive e quindi del senso di vivere questi territori. Ma c’è di più, ci dicono i nostri interlocutori: il ventennio che chiude il ‘900 le dimentica completamente. 

Ed è in questo contesto che si inserisce la storia della Valliera, nata grazie all’intuizione di un gruppo di privati, agricoltori e produttori di vino della Bassa Langa, che decidono di investire sulla rinascita di questo luogo partendo dalla valorizzazione di un’economia locale. 

Un lungo percorso di ricomposizione delle proprietà fondiarie e di costruzione di un modello di governance che porta al recupero dell’intero nucleo, dalle cantine scavate nella pietra per la stagionatura del formaggio agli edifici per la lavorazione casearia, poi le case e gli spazi per l’accoglienza, non ultimo un sistema di percorsi carrabili che ricalca le orme degli antichi sentieri. In un territorio caratterizzato da forti pendenze, è stato necessario realizzare una nuova via per raggiungere i pascoli prevedendo delle pause in piano per la sosta degli animali e per il posizionamento delle macchine per la mungitura. 

La filosofia del progetto: portare nuova vita economica sul territorio. Un’ambizione non semplice da perseguire in una valle chiusa, selvatica, in cui questa operazione è stata faticosamente accettata. Ad oggi, il nuovo gruppo, non è ancora integrato nella comunità e fa fatica a creare alleanze col territorio. L’amministrazione del nuovo sindaco è un cambio di marcia e la speranza di una ricucitura che veda strategicamente il ritorno ad una vivace vita produttiva in valle. “Meglio avere una borgata abbandonata che un gruppo nuovo che si inserisce sul territorio” erano i commenti negli anni dell’avvio. È stato proprio un processo difficile”, ricorda Elisa Fantino (socia fondatrice dell’azienda agricola e responsabile del rifugio) che cerca di stringere alleanze con i produttori locali di zafferano, aglio, pere, Barbarià (biscotti fatti con il barbariato, una produzione mista di grano e segale che si sviluppa in valle partire dal 1700 fino agli anni ‘50 e poi ripresa pochi anni fa) per farli conoscere agli avventori del rifugio. 

Come per tutti gli altri progetti incontrati in questo viaggio, anche per lei la Valliera è un progetto di vita personale. Lei è molto giovane, e viene dal mondo vitivinicolo. E ci racconta come le Langhe negli anni ’80 avessero davvero fatto la differenza grazie alla collaborazione tra vari produttori che hanno saputo creare un prodotto che appartenesse al territorio. Venendo da quella esperienza, Elisa Fantino sottolinea la necessità di costruire una strategia comune. “È una questione di sopravvivenza del prodotto e del territorio.” 

Il complesso processo di rigenerazione prende avvio nel 2007 e vede l’azienda agricola diventare a sua volta la motivazione per il recupero graduale e integrato dell’intero borgo sostenuto da capitali privati e risorse regionali ed europee. A monte, una misura a regia regionale all’interno del Piano di sviluppo rurale 2007-2013 che, utilizzando finanziamenti europei, intendeva “ridare vita ai villaggi, unendo un’esigenza di recupero estetico – legata alla bellezza e all’autenticità dei luoghi – alla necessità di riportare persone e imprese in quei borghi storici delle Alpi e degli Appennini. Un iter complesso e impegnativo che vede al lavoro insieme comuni, comunità montane e privati per la realizzazione di opere che sono specificatamente opere di urbanizzazione finalizzate ad una rigenerazione della montagna”.¹ 

Poi sono spuntate le gru.

Il loro posizionamento ha invogliato altri proprietari a far partire i lavori. Lavori tecnicamente molto complessi perché si tratta di un’area sismica e la borgata, benché i ruderi fossero parzialmente distrutti, era vincolata dalla Soprintendenza dei Beni Culturali di Torino, che ha imposto un restauro di tipo filologico. 

Inoltre, il finanziamento pubblico regionale imponeva un progressivo avanzamento dei lavori su tutti i volumi della borgata. Per questo, insieme all’azienda, nasce un consorzio per la gestione delle opere di urbanizzazione (strada di accesso alla borgata e ai pascoli, fognature, acquedotto), soggetto che oggi aggrega 25 proprietari e rappresenta la dimensione politica che si relaziona con l’attore pubblico. Nel 2012 la prima caseificazione. Nel frattempo, l’azienda acquisisce la gestione del rifugio e nel 2015 si inaugura l’agriturismo. Alcuni spazi della borgata sono ad uso collettivo, edifici comunali o di proprietà private messi a disposizione per creare piazze coperte, un forno collettivo e un museo etnografico. Oggi la borgata è vissuta solo d’estate, quando si portano le mucche in alpeggio. D’inverno non è possibile raggiungerla in sicurezza a causa di due valanghe che puntualmente ostruiscono la strada.

È un bell’esempio di partecipazione del privato che sostiene il pubblico per realizzare delle opere che hanno valenza collettiva. “Si rigenera una borgata, un luogo di produzione, di accoglienza e di vita alpina. Rinasce un pezzo di territorio che dimostra che si può ripensare la politica economica e territoriale alpina al di fuori dell’assistenzialismo che ha caratterizzato in molte valli l’unica via per mantenere le produzioni”, spiega Claudio Conterno, uno dei soci fondatori del progetto di recupero.

Il futuro è sempre più difficile e questo programma, nel suo svolgersi, assume sempre di più il carattere di un laboratorio di pratiche. “Su questo tipo di progettualità a queste altitudini, il pubblico dovrebbe fornire una serie di servizi di base, garantendo infrastrutture tecniche, elettricità e collegamenti”, continua Claudio, e spiegaL’accompagnamento e la sinergia su questo tipo di processi e necessaria per garantire uno sviluppo sistemico e integrato. Non deve essere un intervento pubblico di tipo assistenzialista, ma mirato a mettere a punto dei meccanismi di governance e di ingegneria di capitali misti pubblico/privati in grado di sostenere la realizzazione di queste esperienze di ritorno alla montagna.” (Claudio Conterno, produttore di vini e socio-fondatore del progetto di recupero della Valliera). Ne è consapevole il sindaco che guarda alle borgate Valliera, Batoira e Campofei come un unico sistema abitativo. Sa che c’è ancora molto da fare. Innanzitutto, vorrebbe riaprire il forno (ormai chiuso da troppi anni) e riportare in valle un falegname, un dottore, un opificio e, anche, un birrificio.

Come sul territorio di Castelmagno anche gli altri territori sono testimoni di dinamiche innovative di sinergia pubblico-privato. A Ostana, Giacomo Lombardo, il sindaco uscente, per oltre 25 anni si è consultato con saperi e competenze diverse, ha ascoltato proposte e fatto dell’apertura e dell’accoglienza di persone e idee la cifra della sua amministrazione. Ha avuto la capacità di aprirsi verso l’esterno, ricostituire un tessuto sociale plurale e saldamente ancorato al valore del bene comune, sapendo modellare il finanziamento e l’azione pubblica alle necessità della comunità. E nella stessa direzione prosegue l’azione politica e l’impegno quotidiano della nuova sindaca. In questo comune, una parte fondamentale la fa il volontariato, la partecipazione attiva della popolazione che riconosce in ogni progresso un avanzamento nella costruzione di un modello nuovo di società alpina, ci dice Enrica Alberti, tra le fondatrici della Cooperativa di comunità Viso a Viso. “Molti lavori, anche col finanziamento, sarebbero stati senz’anima”.

I sindaci che abbiamo incontrato osservano il territorio, curano le reti sociali, progettano. A Méolans-Revel e a Rittana, i sindaci si attivano per pensare modelli sostenibili di rinascita del territorio che stimolino il sistema produttivo ed economico attraverso la creazione e il rafforzamento delle reti di welfare sociale e culturale che parta innanzitutto dalle persone. È spesso un processo bidirezionale, in cui il pubblico cerca soluzioni e strategie, e sa che è necessario riassegnare a questi territori un ruolo culturale e produttivo nuovo, e il privato, un singolo, un gruppo di individui, una comunità, che propone un progetto, che spesso su questi territori è un progetto di vita, per sperimentare un’idea di abitare alternativo alla dimensione urbana, e lo cerca tra le Alpi.